
Veglia di Pentecoste, 7 giugno 2025
Cattedrale di san Marco in Latina
Mariano Crociata
“Noi cristiani abbiamo una precisa responsabilità, quantomeno più di altri. La grazia di credere e di vivere nella Trinità ci chiede di coglierne tutto il senso e la missione che ne scaturisce. E la responsabilità più grande che ne deriva per noi è comprendere, vivere e testimoniare che ogni vero rinnovamento comincia dentro, dall’interiorità. Attenzione che non voglio indirizzare all’intimismo: nulla di tutto questo! Ciò di cui siamo testimoni è che solo lo Spirito Santo è principio di vita e di rinnovamento.
È ciò che riscontriamo proprio a Pentecoste: un gruppo di persone spaventate e smarrite si trasforma in una Chiesa oserei dire focosamente missionaria solo dal momento che lo Spirito Santo scende su di loro, nel cuore di ciascuno e su tutti loro insieme. L’interiorità rinnovata dallo Spirito non è mai isolata e individualistica ma personale ed ecclesiale insieme, indivisibilmente.
Ne trovo due segni di riscontro nell’attualità sociopolitica ed ecclesiale. I governi, per un verso, vivono nell’affanno di formulare riforme e leggi sempre più adeguate perché la vita delle società possa scorrere secondo giustizia, libertà, benessere. Si tratta di un’azione necessaria, ma, se non ci sono cittadini che quelle leggi vogliono osservarle, difficilmente il risultato sarà quello sperato. Negli ultimi anni siamo stati richiesti di dedicare maggiore attenzione all’insegnamento sociale della Chiesa, che è in grado di suggerire e ispirare una visione della società e della sua organizzazione tale da assicurare una serena e giusta convivenza. Ma anche in questa prospettiva il problema rimane lo stesso, poiché anche una società strutturata secondo i principi cristiani – ammesso che oggi sia possibile – non è automaticamente una società giusta e uguale, se non ci sono persone, compresi i cristiani, che sono convinte e motivate ad agire secondo quei principi. E infatti, anche nella Chiesa le norme sono necessarie e trascurarne la definizione e l’emanazione produce un grave danno alla sua vita; ma se i fedeli e i membri tutti della comunità ecclesiale non si lasciano muovere non tanto dal senso del dovere verso le norme ma dall’amore del Signore e dalla fede in Lui nel condurre la propria vita e svolgere il proprio servizio, a ben poco valgono norme e leggi.
Tutto dunque comincia e ricomincia sempre dallo Spirito Santo. La Pentecoste che celebriamo quest’anno ci invita a richiamare alcune cose importanti, che riguardano le nostre persone di credenti, la nostra vita di Chiesa e il mondo di oggi. Per quanto ci tocca in prima persona, dobbiamo raccogliere l’invito di Gesù nel vangelo: chi ha sete venga e beva chi crede in me (cf. Gv 7,37-39). Qui il problema è se siamo ancora capaci di percepire quella sete di cui parla Gesù, la sete del desiderio infinito che ci abita e plasma la nostra umanità. È quel desiderio che sta al fondo dei mille desideri di cui il più delle volte siamo prede predestinate senza alcuna capacità di sfuggirvi. In realtà siamo veramente umani perché strutturati attorno a una sete di infinito che ci spinge sempre oltre tutto ciò in cui possiamo trovare un momentaneo appagamento. E pure questa sete, per essere scoperta e assecondata secondo la sua adeguata destinazione divina, ha bisogno dello Spirito, ha bisogno che ci lasciamo educare da Lui, che ci rendiamo via via sempre più sensibili allo Spirito. E le vie per diventare tali sono quelle che la Chiesa ci indica.
Ma proprio la vita di Chiesa – e questa è la seconda riflessione – ci vede talora preda di una molteplicità disordinata di desideri che oscurano l’unica sete che conta e che ultimamente ci possiede. Anche per noi vale la parola degli uomini della torre di Babele: «facciamoci un nome» (cf. Gen 11,1-9). Nelle cose spirituali questa è la brama più insidiosa, quella di farsi un nome. Del resto tra le parole di Gesù, a questo proposito troviamo una delle più pungenti: «E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?» (Gv 5,44). La tentazione più pericolosa per noi è dentro la religione, quando in essa si perde la distinzione tra il fare e il trattare le cose sante per sé piuttosto che per Dio: ad maiorem Dei gloriam è uno di quei motti che bisognerebbe sempre tenere a mente. Il risultato inesorabile qui è la confusione delle lingue, la perdita della capacità di capirsi, fino all’incomunicabilità. Dobbiamo cercare lo Spirito e chiedergli di imparare a distinguere la ricerca sincera di Dio dalla ricerca di sé stessi. Tra “Dio” e “io” c’è una minuscola differenza lessicale, anzi solo la lettera “d”; ma la differenza di sostanza è immensa, perché tra l’uno e l’altro c’è un mondo, un abisso, come tra l’essere e il nulla.
In ultimo vi invito a riflettere su un intreccio di temi e di preoccupazioni che a partire dal motivo della speranza, che il giubileo di quest’anno ha posto al centro della nostra attenzione, si dispiega lungo un orizzonte che abbraccia la vita del mondo di oggi. E guardando al mondo di oggi sono il bisogno e l’invocazione della pace che stanno al centro della nostra Veglia, così raccogliendo la sollecitazione dei vescovi italiani. Veramente le notizie della cronaca quotidiana, fino a quelle di oggi e anzi di stasera, gettano tutti piuttosto nello sconforto se non nella disperazione? Chi o che cosa riuscirà a farci uscire da questo incubo di guerra guerreggiata che tocca precisi scenari geografici e politici ma coinvolgono il mondo intero? Ci sentiamo bloccati in una situazione senza via d’uscita. Vorrei a questo proposito lasciare due semplici indicazioni.
La prima e più importante viene dalle parole di Paolo (cf. Rm 8,22-27). Anche noi sentiamo e siamo convinti che la creazione geme e soffre le doglie del parto, e con essa la storia drammatica di questo tempo. Nella speranza però siamo salvati. Se vedessimo già le soluzioni, non avremmo nulla di meglio da sperare. Invece proprio il non vedere ci fa sperare, poiché per la promessa di Dio noi sappiamo che la nostra destinazione e soprattutto la destinazione dei popoli direttamente in guerra è la pace. Ciò che dobbiamo fare è pregare e agire lasciandoci guidare dalla visione della destinazione di pace che è oggetto certo della nostra speranza e della nostra attesa. Per questo abbiamo bisogno dello Spirito, di invocarlo e di assecondarlo. Di qui scaturisce il secondo piccolo consiglio. Non lasciamoci ingannare da qualcuno che pretende di sapere già tutto, di avere la risposta per tutto e di indirizzare i nostri pensieri, le nostre parole e le nostre decisioni. Nessuno ci illuda che a questioni e situazioni così complesse si offrano risposte e soluzioni semplicistiche. Questo lo fanno i populismi di ogni colore. Ciò di cui abbiamo bisogno non è quello di schierarci, da una parte o dall’altra, se non altro perché sofferenze disumane sono dovunque. Ciò che dobbiamo fare è sperare, pregare e cercare di capire, per dire le parole e compiere i gesti necessari quando ci saranno richiesti.
Sembrano piccole cose, anzi perfino inutili, per noi cittadini comuni; in realtà ognuno di noi ha il potere di dare un contributo a una pace che innanzitutto deve toccare i cuori e le menti, e portare a un modo di agire e a uno stile di vita fatti non di schieramenti contrapposti ma di persone disponibili a incontrarsi e a lavorare insieme per un mondo più giusto e fraterno”.